I contributi: Pasquale Fallacara

Riportiamo la nota che il nostro prezioso caro concittadino Pasquale Fallacara ci ha inviato. Oltre alla pregevolissima raccolta di foto d'epoca del nostro Monumento riporta anche interessanti notizie riguardanti la storia dell'Obelisco Carolino.
Non vogliamo tralasciare nulla e cerchiamo di illustrare fedelmente il materiale che ci ha deliziato. Riportiamo anche la parte relativa agli atti vandalici che hanno danneggiato il nostro Altare della Patria.

Chiunque volesse contattare il nostro amico Pasquale Fallacara può farlo richiedendoci il suo indirizzo email. Provvederemo ad inviarglielo al più presto.
Tutte le foto, nonostante l'indicazione riportata, sono state concesse dal Sig. Fallacara.

Pasquale Fallacara



L’Obelisco Carolino
Guardiano del tesoro



Al centro di piazza “26 Maggio 1734”, svetta l’Obelisco Carolino, monumentale testimonianza della battaglia che in quel luogo si svolse tra le truppe spagnole ed austriache, battaglia determinante per la guerra di successione, per la ricostruzione del regno meridionale, e che portò sul trono di Napoli i Borbone con Carlo III. 

Fu il Generale Giuseppe 
Carrillo, conte di Montemar, a far progettare e costruire l’obelisco tra gli ulivi del campo della battaglia. L’ingegnere 

del Genio Giuseppe Medrano fu incaricato del progetto, mentre i lavori furono diretti dal Ten. Colonnello Francesco 

Rorro e dall’ingegnere Gioacchino Magliano. 



L’obelisco alto 18 metri, è di tufo rivestito da lastre di marmo bianco di 
Carrara, mentre di roccia dolomia bitontina sono gli scalini, i quattro cantonali e gli otto medaglioni incastonati sullo 

stelo. 



Come si evince da vecchie foto, in principio l’obelisco presentava a vista quattro grandi scalini, dei quali 
purtroppo attualmente sono visibili soltanto due, in quanto i restanti si trovano sotto il livello della piazza, ed è lì, sotto 


di essi che si cela un piccolo “tesoro”. Nella settecentesca narrazione del Sig. D. Pietro Alburquerche, testimone 

dell’erezione della “Guglia”, leggiamo: ”…all’erezione della Guglia..vi si mise sotto una casetta di pietra con crocetta 
di ferro impiombata, ove si riposero varie monete”. Ad ulteriore conferma in un antico documento “Raccolta avvocato Pasquale 

Martucci-Zecca” viene riportata la seguente notizia: “A dì 23 maggio 1736 alle ore quattordici si pose la 


prima pietra della piramide fatta mettere da S.M. Napoletana e Siciliana, D. Carlo Borbone alla via di Giovinazzo, e 

propriamente avanti la cappella di S. Maria della Pietà dove appunto S.E. il conte di Montemar ruppe le truppe 

allemanne nella battaglia succeduta alli 25 di maggio del 1734. Detta funzione di mettere la prima pietra fu solenne 
con sparo e con suono di campane di questa città, e se ne rogò atto pubblico per mano di notar La Segna di Bari, che 
venne qui col precettore Calentano di Bari, da cui in nome di S.M. furono poste sotto della piramide due medaglie 
d’oro con quattro monete d’argento venute da Napoli, e dal detto colonnello fu posto del suo un pezzo da otto 

spagnuolo”.



Bernardo Tanucci



Per quanto riguarda le due medaglie in oro molto probabilmente esse sono similari all’esemplare in rame 

presente nel museo spagnolo “Làzaro Galdiano”, coniata in omaggio al duca di Montemar, conduttore dell’impresa, 

come ringraziamento per il regno “recuperato”. La medaglia, del diametro di 91mm e del peso di 218 grammi presenta 

al diritto: IOS . CARILLO. DE . ALBORNOZ . DUX . DE . MONTEMAR - AN. MDCCXXXV, busto del duca a 
destra con parrucca, manto e corazza, ed al rovescio: RECUPERATIS, la vittoria alata con la corona di Spagna e delle 
Due Sicilie nella mano destra e quella di Milano nella sinistra, stante sopra un trofeo di armi dove sono raffigurati il 
cavallo rampante di Napoli e l’aquila di Palermo. 









La medaglia di grande pregio artistico è attribuita all’artista 

toscano “Massimiliano Soldani Benzi”, già autore di numerose altre medaglie barocche presenti oggi nel medagliere del 

museo “Bargello” di Firenze. 









Per le quattro monete in argento, giunte da Napoli, sicuramente si tratta di piastre o mezze 

piastre, rispettivamente pezzi da 12 carlini (120 grana) e 6 carlini (60 grana), le uniche in argento emesse dal 1734 al 

1736. Anche comunemente conosciute con il nome di “Sebeto”, rappresentano su una faccia il fiume Sebeto 

allegorizzato, con il mare ed il Vesuvio fumante per sfondo, e la dicitura “ CAR D G REX NEA HISP INFANS”, e 
sull’altra lo stemma coronato di Carlo di Borbone, e la dicitura “DE SOCIO PRINCEPS”, (Da Alleato a Sovrano). 











Per 

quanto riguarda invece il “pezzo spagnuolo da 8”, possiamo ipotizzare con molta certezza che si tratti della moneta in 

argento da 8 Reales, di Filippo V, coniata in quegli anni e denominata “de la Cruz” (della croce), la quale riporta su di 

una faccia lo stemma coronato di Filippo V e la dicitura “PHILIPPUS V D G” e sull’altra una croce, intervallata ai 
quattro angoli dal castello e dal leone, con la dicitura “HISPANIARUM REX”. Il Galanti, nella “Relazione ufficiale” 
inviata al re nel 1780, rilevò che l’obelisco doveva presto rovinare stante la cattiva qualità della pietra adoperata. Ciò 
invece non si è verificato, ed il grande obelisco tutt’oggi troneggia al centro della piazza, guardiano e custode del 
piccolo inestimabile “tesoro”.







La storia offesa
L’Obelisco Carolino nuovamente imbrattato!




Obelisco Carolino appena restaurato





Ci risiamo, l’Obelisco Carolino, opera realizzata per volere di Carlo di Borbone all'indomani della 
famosa “Battaglia di Bitonto”, posizionato al centro dell’attuale piazza “26 Maggio 1734”, in quel 

luogo dove si svolse lo scontro tra le truppe spagnole ed austriache, battaglia determinante per la 

guerra di successione e per la ricostruzione del regno meridionale, è stato nuovamente imbrattato 
dai soliti giovani vandali. In origine fu il Generale Giuseppe Carrillo, conte di Montemar, a far 

progettare e costruire l’obelisco tra gli ulivi del campo della battaglia.


 L’ingegnere del Genio 

Giuseppe Medrano fu incaricato del progetto, mentre i lavori furono diretti dal Ten. Colonnello 

Francesco Rorro e dall’ingegnere Gioacchino Magliano, coadiuvati dal sacerdote bitontino 
Nicola Pasquale Valentino, soprannominato “priscizzo”. 











Oggi alla vigilia del 278° anniversario 
della “Battaglia di Bitonto” le quattro lapidi marmoree, dettate dal Tanucci, Ministro di Carlo 
III, dedicate rispettivamente a Filippo V, Re di Spagna, delle Indie e delle Due Sicilie, a Carlo 
III, infante di Spagna, Re di Napoli e di Sicilia, Duca di Parma e Piacenza, al Generale Giuseppe 
Carrillo, Conte di Montemar, ed all’esercito spagnolo, sono state imbrattate da innumerevoli, 
vergognose, deturpanti ed indelebili scritte graffitare.

Il bello è che tutti i bitontini stanno a guardare 
e nessuno fa niente! 







Eppure, utilizzando due faretti, una modesta cancellata ed una piccola aiuola si 
potrebbe abbellire e valorizzare l’Obelisco proteggendolo da questi ignobili “graffitari”. Il Generale 
Giuseppe Carrillo, conte di Montemar oggi si rivolta nella tomba!







La Battaglia di Bitonto


Nel 1708, nel Napoletano, alla dominazione spagnola era subentrata l’austriaca. Frattanto Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo re di Spagna, volendo, almeno in parte, fare recuperare alla corona spagnola i perduti domini italiani, allestì un esercito che affidò all’infante suo figlio Carlo, già proclamato, per la morte di Antonio Farnese, duca di Parma e Piacenza e principe d’Etruria.
L’unica battaglia, che ebbe luogo tra Spagnoli ed Austriaci, avvenne, è noto, a Bitonto, con vittoria dei primi. I “fatti” della battaglia vennero descritti dagli studiosi locali e pubblicati in più edizioni nel 1877 (Ed. Garofalo), nel 1934 (Ed. Amendolagine) e nel 1984 (Massarelli-Robles-Rella). 
Schema della Battaglia di Bitonto (cliccare sull'immagine per ingrandire)




In quest’ultima pubblicazione intitolata “Bitonto e la Battaglia del 25 Maggio 1734”, il Generale Giuseppe Rella riporta lo schieramento delle forze in campo e la tattica che portò il Montemar allo sfondamento ed alla conseguente vittoria. Le truppe austriache comandate dal maresciallo Giovanni Carafa, principe di Policastro, cui fu aggiunto per l’occasione, il tenente maresciallo conte di Traun, occupavano la città di Bitonto con circa 1500 militi, ed erano situate fuori di essa a sinistra con 750 fanti nei pressi del convento di Sant’Antonio (Santa Maria della Chinisa), al centro con circa 3000 fanti disposti al riparo di muretti a secco, ed alla destra con circa 1500 militi tra cavalieri e granatieri nei pressi del complesso di San Leone. L’esercito spagnolo, composto da circa 16000 ispano-italici, comandato dal generale Don Giuseppe Carrillo conte di Montemar, aveva stabilito il quartier generale sulla via di Molfetta, con la chiesetta di S. Aneta per infermeria, ed avanzava su sette colonne per smantellare il dispositivo austriaco. 
La prima colonna, posizionata presso la torre di “Spoto”, era composto dai reggimenti Milano e Fiandra. In questa torre, utilizzata come osservatorio, data l’ottima visuale su tutto il territorio circostante, furono installati due pezzi di artiglieria che battevano con fragore la città di Bitonto. La seconda colonna era composta dalla brigata di cavalleria Borbone, la terza dai reggimenti Svizzeri, Guardia e Granatieri, la quarta dalla Guardia Svizzera e Spagnola, la quinta dalle brigate Pavia e Francia, la sesta dai Cavalieri Estremadura, Andalusia e Malta, la settima, infine, dai Carabinieri Reali. Lo sfondamento delle truppe austriache avvenne al centro, mentre l’aggiramento fu effettuato dai reparti di cavalleria spagnola che ben presto colsero gli imperiali alle spalle.


La vera battaglia, si svolse dall’alba al tramonto del 25 maggio concludendosi con la disonorevole fuga del Belmonte e la dura resa del Rodoski. I feriti furono trasportati e curati nella Chiesa e convento di S. Francesco d’Assisi, dei Padri Cappuccini e di Santa Maria della Chinisa. I morti furono circa 2000 fra i due schieramenti e le salme dei soldati furono sepolte nei cimiteri conventuali situati nei dintorni della città, mentre quelle dei nobili furono sepolte nella chiesa di San Vito, situata nell’antico complesso di “Torre Franco De Facendis”. 


Sette anni dopo dal terrazzo di tale torre il vescovo Barba illustrò ai Reali di Napoli Carlo III e Amalia Walpurga le fasi della cruenta battaglia bitontina. Dalla cartografia a colori degli inizi dell’ottocento “Campagne del Principe Eugenio di Savoia” (collezione privata P. Fallacara), si può meglio osservare lo schieramento ed i successivi spostamenti delle forze in campo.  









La nascita dei “Reggimenti Provinciali” al termine della Battaglia di Bitonto

Nel 1708, nel Napoletano, alla dominazione spagnola era subentrata l’austriaca. Frattanto Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo re di Spagna, volendo, almeno in parte, fare recuperare alla corona spagnola i perduti domini italiani, allestì un esercito che affidò all’infante suo figlio Carlo, già proclamato, per la morte di Antonio Farnese, duca di Parma e Piacenza e principe d’Etruria. Il 25 Maggio del 1734 fu combattuta nella nostra città la famosa “Battaglia di Bitonto”, nella quale si scontrarono l'esercito spagnolo, comandato dal generale Montemar, e quello austriaco, guidato dal Principe di Belmonte, conclusasi con la disfatta dell'esercito austriaco e la vittoria degli spagnoli. Questa battaglia, determinante per la ricostruzione del regno meridionale, portò definitivamente il Regno di Napoli sotto il dominio di Carlo di Borbone, il quale dotato di capacità organizzative e dinamismo si dedicò con fermezza al progresso ed al riordino delle forze armate. Sotto la sua guida infatti fu individuata per la prima volta la necessità di creare istituti specializzati per la formazione degli ufficiali delle varie armi. Ciò portò alla fondazione nel 1735 della "Real Academia de los Guardias Estendartes de las Galeras", nel 1745 dell'"Accademia di Artiglieria" e nel 1754 dell'"Accademia del Corpo degli Ingegneri militari". L'opera di Carlo III fu continuata e perfezionata dal figlio Ferdinando IV di Borbone, il quale nel 1769 fuse la “Reale Accademia di Artiglieria” con quella del “Corpo degli Ingegneri” nella "Reale Accademia Militare", successivamente denominata “Scuola Militare Nunziatella" con sede in Napoli, attualmente uno dei più antichi istituti di formazione militare del mondo. Sebbene l’organizzazione e la lingua ufficiali fossero ancora spagnoli le milizie erano prevalentemente italiane ad eccezione degli ufficiali addetti ad inquadrare i reparti. Nel novembre del 1743 vennero costituiti i “Reggimenti Provinciali”. In Puglia vi erano tre Reggimenti: “Capitanata”, “Terra d’Otranto” e “Bari”. Per quanto attiene alle uniformi  i militari di “truppa” erano generalmente dotati di una “giamberga” (lungo abito a file di bottoni con falde rialzate e con ampi risvolti alle maniche), e di un “giamberghino” (sottoveste o gilet), calzoni chiusi al ginocchio, cravatta, alte ghette e tricorno di feltro nero. Gli ufficiali si distinguevano per il maggior pregio delle stoffe, degli ornamenti e per l’uso della “gorgiera” dorata con giglio d’argento. I reparti venivano identificati per il colore della “giamberga”, dei risvolti e dei paramani, per quello del “giamberghino” e dei calzoni e per i metalli e il nastro del tricorno che potevano essere galli o bianchi. La coccarda era quasi sempre scarlatta, colore caratteristico della casa Borbone. L’equipaggiamento, esclusivamente in cuoio naturale, si integrava all’ armamento che era costituito da spada e spuntone per gli ufficiali e fucile con baionetta per la fanteria. Per il “Reggimento Bari”, preposto a vigilare e garantire l’ordine e la sicurezza nelle terre della nostra Bitonto, le uniformi degli ufficiali erano caratterizzate da una “giamberga” di colore bianco e da un “giamberghino” di colore azzurro, viceversa per i militari di truppa. Viene da chiedersi che sviluppo avrebbe avuto l’Italia in campo militare se il 25 maggio 1734 la vittoria sotto le mura di Bitonto invece di sorridere agli spagnoli si fosse accampata con gli austriaci?



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